Carlo Alberto Bucci, 2007
Supernova e calcinculo


Nel lavoro di Peter Flaccus c’è un nuovo disegno (sì, proprio nella pittura di Peter, fatta di solo e assoluto colore, senza disegno). Ed è la figura che — dopo dodici anni di encausto romano, gli ultimi dei quali passati ad ammirare i colori caldi fondersi liberamente sotto i suoi occhi — l’artista americano imbandisce sulla tavola. Sulle ampie superfici in legno realizzate quest’anno ed esposte ora a Capalbio per la prima volta, formata da riquadri o tondi di cera, spessi alcuni millimetri e ognuno contenente in sé un cerchio, ecco apparire una sorta di ellisse. Non una geometria pignola, da geometra. Ma una figura primordiale, incerta ma viva, come lo è il caos o il caso.

Come tutte le cose, la protagonista dei recenti dipinti di Flaccus non nasce dal nulla. L’ellisse assomiglia molto alle forme che l’hanno preceduta e, come i cicli della natura, è possibile che in futuro torni al passato; squagliata — come la cera d’api mista a gomma che Peter sposa ai pigmenti — in un altro crogiuolo. Eppure, il nome che vorrei dare a queste felicissime opere è Supernova.
Nulla è inedito, e chi ci crede è un illuso. L’arte ha piuttosto il merito di farti scoprire qualcosa di eterno ma che non avevi mai visto nonostante l’avessi da sempre sotto il naso. Il quadro è davvero una finestra aperta.

Così è successo a me quando, l’8 maggio scorso, tornato dallo studio di Peter a piazza San Cosimato, con ancora negli occhi e nel cuore la profondità di quel colore che ti assorbe lo sguardo e l’allegria di quel giro di giostra da capogiro, ho acceso il computer e ho notato una notizia di scienze, di quelle che di solito salto. Gli astronomi di un’università della California hanno individuato la supernova più potente e luminosa mai vista prima tra 400 miliardi di stelle. Lei, l’ultima, la super delle supernove, 150 volte più grande del sole e distante 240 milioni di anni luce dalla terra, s’è lasciata ammirare dagli scienziati per 200 giorni, ora più ora meno. Non conosco la natura (elaborazioni al computer o riprese reali con cannocchiale elettronico, o quale altra diavoleria?) delle sequenze che formano il video apparso in Internet. Ma certo è che non l’avrei notato se, in quella stratosferica esplosione stellare, non avessi riconosciuto qualcosa che molto gli assomiglia: ossia il "punto di fusione", per dirla col titolo della personale romana di Flaccus del 2004, della cera colorata e colata.

Non ci sono solo le stelle nel firmamento delle similitudini dettate dalle figure che Peter fa apparire sulla tavola lasciando che la materia e il processo dell’opera seguano il loro corso. Ma, come suggeriscono i testi nel catalogo della mostra di tre anni fa alla galleria A. A. M (e ai quali rimando per la precisione dell’analisi), quei cerchi di colore posso sembrare anche «cellule, organismi, fiori, baci, buchi» (eppure, avverte Brunella Antomarini, l’artista fa in modo «che nello stesso tempo non lo sembrino»); oppure fanno venire in mente, ad Annemarie Sauzeau, «bolle di sapone, onde concentriche che si propagano, cellule, amebe, macchie, tronchi d’albero appena tagliati, esplosioni cosmiche, insomma fenomeni organici e dinamici, vivi e pulsanti».

Tutto vero, e bello. E niente di nuovo sotto al sole, per fortuna. Racconta, e favoleggia, Giorgio Vasari che Piero di Cosimo «Fermavasi tallora a considerare un muro, dove lungamente fusse stato sputato da persone malate e ne cavava le battaglie de’ cavagli e le più fantastiche città e più gran paesi che si vedesse mai; simil faceva de’ nuvoli de l’aria». Vero è che, diversamente da Piero, la pittura di Peter ci riporta a uno stadio della natura che precede il suo prendere forma in bestie o paesaggi. Ma ci riporta anche a una condizione di ascolto e curiosità di fronte all’opera rispetto alla quale il pittore è il primo spettatore. Non c’è progetto, programma, strategia. Ma accompagnamento della forma nel suo farsi.

Fino a un certo punto, però, l’artista si fa prendere la mano dall’opera che sta manipolando. È, e rimane, padrone in casa sua; libero di rifondere la cera indurita e di far scomparire l’immagine. Per questo, rispetto ai quadri precedenti, negli ultimi lavori Peter ha lasciato che l’opera mostri le irregolarità del suo venire alla luce: le "bave di fusione", i bordi sfrangiati delle forme in cera, le sgocciolature sul fondo, sempre mosso, vivo, della superficie in legno anch’essa colorata. In qualche modo, "la grande ellisse grigia con i soffioni rosa", la "tavola dei rossi", la "Mandorla" (tre delle opere in mostra con i nomi che gli ho dato io, come promemoria), per questa loro manifesta fisicità rimandano al "dittico bianco" della produzione precedente (ed egualmente esposto ora); quando la cera era stesa a pennello e le linee erano svolazzanti volute scavate nel fondo bianco, calcinoso come un muro mediterraneo.

Infine, l’ellisse. È un tondo schiacciato. Un cerchio in movimento. Una mandorla, tutto sommato: ricorda la geometria luminosa che contiene le figure della Madonna o del Cristo. In tutte le sue opere Peter rifiuta di essere messo in mezzo: fugge il centro della superficie e lo fa spostando, anche di poco, l’esplosione-fusione di lato, verso i bordi. Ma nelle ultime, le supernove, sul grande e frammentato formato delle tavole, accentua la dinamicità. Per creare l’ellisse, le formelle tonde e quadrangolari si sostengono e spingono l’un l’altra, a volte si fondono l’una nell’altra. Si lanciano e rincorrono in allegria, sospinte da una forza centrifuga che le spara lontano ma le tiene unite e vicino. Sembrano ragazzi sulla giostra dei calcinculo.